Il romanzo  narra la storia di un diplomatico che sceglie di lasciare l’Italia per  un’isola (Rodi) nelle regioni dell’Attica, e del suo triste amore per la  moglie Alessandra. Il presente e il passato si alternano ed anche si  mescolano dentro una scrittura malinconica e riflessiva. Al consolato  giunge una lettera, riconosce la calligrafia: è di Alessandra, sua  moglie «civile e legittima.», che non vede da dieci anni. Non  ha il coraggio di leggerla. La nasconde. È la paura di contaminare la  parte più preziosa della memoria, quella che dà senso ai suoi giorni: «La stessa paura di crollare di quando m’accorsi che Alessandra non era tornata.»  Nella prosa di Terra c’è la poesia che nasce dalla indefinibilità delle  cose che ci stanno intorno. Perfino i colorati mercati orientali si  caricano dell’insicurezza e dell’imponderabilità della esistenza: «Forse  sarà finito per me il tempo dei banchi di nebbia, degli sbarramenti  nella memoria per contenere il disordine della solitudine.» Lo  straniero che si sente non straniero per affinità culturale con il paese  che lo ospita si confronta con la solitudine, l’amore perduto e forse  riconquistato (e di nuovo perduto). Un racconto filosofico, il riassunto  di una vita, la malinconia per un amore che c’è e non ci sarà più. Toni  lievi e profondi insieme. Un libro da meditare per una scrittura che  spesso si fa poesia. 
Stefano  Terra è oggi uno scrittore ingiustamente dimenticato. Ingiustamente  perché è stato un grande scrittore. Lo scoprii tale proprio grazie alla  lettura di Alessandra, romanzo con il quale vinse il Premio Campiello  nel 1974. Non era quello il suo primo romanzo ma, confesso, io ero la  prima volta, nei miei allora primi 26 anni di vita, che lo sentivo  nominare. Acquistai il libro perché, avevo letto sui giornali, era  ambientato in Grecia, a Rodi – ed io avevo una moglie di origine greca,  di un’isola, Kos, appartenente allo stesso arcipelago di Rodi, il  Dodecaneso – e alla stessa storia degli ultimi secoli. Cosa affascinava  in quel giovane lettore dell’amore tra due anziani, due persone lontane  dall’età, dai sentimenti che poteva provare lui? Credo che lo  affascinasse il sogno di avere una vita piena come la loro, un’esistenza  non comune, avventurosa, romanzesca, verrebbe da dire. Solo che quella  esistenza, e il romanzo che la raccontava, a leggerlo, aveva un dono in  più: l’afflato di una scrittura che afferrava il lettore alle viscere  per trascinarlo dritto al cuore dalla prima all’ultima pagina (dalla Postfazione di Diego Zandel) 
Stefano Terra, pseudonimo  di Giulio Tavernari (Torino, 1917 – Roma, 5 ottobre 1986), è stato uno  scrittore, giornalista e poeta italiano. Fu vincitore del Premio  Campiello nel 1974 con Alessandra, del Premio Viareggio nel 1980 con Le porte di ferro e del Premio Scanno nel 1984 con Albergo Minerva. 
  
Dalla bio di Stefano Terra che presenta se stesso nell’edizione Bompiani del 1974 «Sono  nato nel ’17 a Torino. Provavano i motori degli idrovolanti in grandi  capannoni vicino al Po. Dal fronte mio padre mandava lettere dannunziane  a mia madre che non le capiva e doveva cucire in casa le asole un tanto  la dozzina. Negli anni Trenta eravamo alcuni ragazzi avventurieri fra i  libri rubati nelle biblioteche o stanati nei depositi per il macero.  Cesare Pavese e Ginzburg più anziani e seri ci consideravano delle teste  accese pericolose. Uno studente lituano ci traduceva Trotzski. Delle  ragazze ebree che avevano fatto il liceo, (quello vero, che per noi  irregolari pareva un tempio misterioso) ci prestavano dei libri rilegati  che sapevano di chanel: Dedalus, Oblomov, I demoni. Andavamo a vedere i  film di Carné alle due del pomeriggio per essere soli. Anni di  manifesti rivoluzionari, riunioni segrete, amori di tutta una vita,  casti come la cospirazione. Dopo tanti complotti facemmo scoppiare una  bomba di carta durante un’adunata oceanica. Qualcuno di Giustizia e  Libertà venne dalla Francia per un incontro segreto. La guerra ci  disperse. Mobilitato per l’Albania, riuscii nel ’41 a raggiungere gli  antifascisti al Cairo. Collaborai a Masses. New Leader pubblicava Morte  di Italiani, i miei primi racconti, e poi usciva il mio romanzo, La  generazione che non perdona, mentre Rommel si attestava a El Alamein e  nel cortile dell’ambasciata britannica si bruciavano i cifrari.  Scomparso Enzo Sereni, liquidato il Politecnico di Vittorini, espatriai  nel dopoguerra come giornalista. Parigi e poi, per 25 anni, Balcani e  Levante: interviste, guerriglie, pronunciamenti. Liquidavo. Liquidavo  ogni giorno la vita con un pezzo per il giornale. Alcuni anni fa, di  colpo, ho ricominciato a scrivere abbandonando il mestiere. E ho scritto  La fortezza del Kalimegdan e, dopo qualche anno, Calda come la colomba.  Vivo in una casa dell’Attica con eucalipti, vigna adagiata  sull’argilla, gatti dalla testa piccola e le volpi all’imbrunire».  
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