“La fatica dell’intero”, Sottocornola e l’eguaglianza diversificante del pensiero

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08/12/2024, ore 05:23

La fatica dell’intero. Il pensiero come arte dell’incontro, il nuovo libro di Claudio Sottocornola, disponibile nelle librerie da qualche mese per i tipi della Oltre Edizioni, offre alla lettura una visione filosoficamente ed umanamente concreta nei riguardi della società attuale, tecnicistica ed egoistica,  la cui marcata esteriorità viene innalzata sull’altare del digito ergo sum e dell’apparire ad ogni costo, nella propensione a far sì che quel quarto d’ora di celebrità vaticinato da Warhol si possa propagare verso l’infinito ed oltre. Uno sguardo da moderno filosofo quello di Sottocornola,  incline a rendere la filosofia il punto centrale del suo personale discorso intellettuale, avvalendosi inoltre di un suggestivo percorso interdisciplinare che lo porta ad affrontare le varie tematiche con  coerente e lucida originalità di pensiero, come nel volume in esame, suddiviso in tredici capitoli, ognuno comportante un interrogativo, apparentemente irrisolvibile, tra due differenti manifestazioni dell’essere (dall’iniziale Verità o Appartenenza? al finale Materia o Spirito?).

Claudio Sottocornola

Una dicotomia che servirà invece da utile tramite per delineare nello scorrere delle pagine un ragionamento volto a valorizzare le diversità proprie di ciascuno di noi, conducendo ad un’idea di condivisione intesa a dare adito ad un prospetto di eguaglianza rifuggente da una indistinta omologazione. Un’eguaglianza, quindi, che dovrà tener conto delle caratteristiche fondanti inerenti ai personali trascorsi esistenziali, anche considerando le relative appartenenze fideistiche o le esperienze spirituali, così da ritrovare, nell’ auspicabile incontro con l’altro, quel prossimo d’evangelica memoria, una comunanza d’intenti che rinverrà infine, nella delimitazione di un ritrovato concetto di caritas, il suo cuore pulsante. Un soffio vitale idoneo a rappresentarci come una sorta di unicum composto da molteplici diversità, circoscritto da un’identica Entità, variamente denominata, che sovrasta tutto e tutti, guidando, o ispirando, i nostri passi terreni.

(Wesley T Allen 
Copyright: Creative Commons, attribution, non-commercial, share-alike)

In particolare l’autore si sofferma su quanto prospettato dal teologo Raimon Panikkar riguardo l’esistenza di un mythos fondativo,  “come insieme di esperienze  originarie e immagini archetipiche che contrassegnano la vita di popoli, gruppi e individui, orientandoli nella lettura e interpretazione del mondo, che siamo chiamati a rispettare e comprendere”. Quindi ci troveremmo di fronte a differenti prospettive nel porci a confronto  con la realtà, una diversità di visione che andrebbe a rappresentare l’effettiva possibilità di estendere il nostro orizzonte servendosi di un approccio ermeneutico. Quest’ultimo ci consentirà, infatti,  di conferire un nuovo volto alla conoscenza, vista ora nel compendio delle due esperienze, per cui la prospettiva dell’altro si trasmuterà in  ricchezza ed opportunità.

(Jason Howie, Concessione di licenza CC BY 2.0, via Wikimedia Commons)

È però innegabile che all’interno dell’odierna società tardo capitalista, con l’impalcatura messa su  dalla “triplice alleanza” tra il potere economico-finanziario, quello politico e quello  mediatico (“classico” e digitale), la maggior parte delle persone propenda a sostenere un discorso di parte, anche nell’ esprimere posizioni dominanti, coniugando funzionalmente in tale ultimo caso il mantenimento del potere e la salvaguardia dalle opinioni contrarie che potrebbero metterlo in discussione. La gente comune, quella intenta nel lavoro di ogni giorno e spesso sommersa da un mare di triboli, appare invece come lobotomizzata dalla videocrazia espressa dai mass e social media, ai quali spesso si appella in nome dell’informazione e della formazione, lasciandosi incantare dal canto edonistico e consumistico intonato dalle tante sirene nel mare magnum dell’etere.

Da qui a fare tabula rasa di ogni concetto relativo alla citata idea di caritas, la disposizione del pensiero verso l’accoglienza e la valorizzazione dell’altro, il passo è breve, come lo è il ricercare una sicurezza interiore o una presa di distanza in varie forme d’integralismo, a partire da quello religioso, espresso nelle diverse confessioni, certo deprecabile, sostiene Sottocornola,  nella sua tendenza a produrre l’illusoria convinzione di avere “i copyright della verità”, anche se, nel rincorrersi tra opulenza e decadenza, edonismo e materialismo, proprio della società occidentale, pure tale estremismo ideologico sembra subire i colpi di  uno spontaneismo lassista  e radicalmente relativista, per cui non vi sarà norma, regola, divieto che non dovrà sottostare al giogo di un individualismo costituito da un insieme di voglie, capricci, emozioni.

(Pexels)

Occorrerebbe invece, spiega Sottocornola, guardare alla legge in guisa di strumento, cercando di comprenderne il carattere ermeneutico, considerando come vada a posizionarsi nello spazio e nel tempo, rendendosi soggetta ad una comprensione storica e ad una articolazione antropologica culturale, per cui il patrimonio etico che ci viene tramandato, composto anche da norme, consuetudini, prescrizioni, raccomandazioni, potrà costituire una straordinaria opportunità, tale da indirizzarci verso il valore.

A noi il compito di scegliere se e come cogliere tale opportunità, magari considerando quanto delimitato dalla nostra cultura e dalla nostra tradizione non uno steccato da buttare giù, bensì “uno spazio sacro da cui può elevarsi finalmente tutto il nostro desiderio e la nostra aspirazione alla trascendenza, sempre che abbiamo a riconoscere le medesime prerogative allo spazio sacro altrui. La legge allora, così come codificata dalla Storia che ce l’ha consegnata, è solo un dono, una opportunità per la coscienza che, grazie ad essa, potrà crescere nella libertà”.

Particolarmente interessante si è rivelato il capitolo inerente alla contrapposizione tra religione e spiritualità, in quanto ne viene colta l’eventualità che entrambe possano assumere un ruolo fondamentale nella cornice dell’ordinaria ritualità giornaliera, insieme alla difficoltà di sviluppare una propria esperienza spirituale prescindendo da un orizzonte culturale, anche religioso, che possa fornire tutta una serie di esperienze codificate e condivise atte ad indicare la via verso il proprio percorso interiore. Una prospettiva che, sempre nell’ambito delle società occidentali, appare offuscata dalla crisi inerenti alla proposta di riferimenti e valori idonei a far venir fuori la sensibilità dell’ homo ludens contemporaneo.

(PxHere)

Oramai si è infatti propensi a deviare dalla pratica religiosa propriamente detta, che vada al di là di un momentaneo slancio avallante qualche esternazione intesa ad abbracciare una modernità di facciata da parte di una Chiesa che non sempre riesce ad allineare, concretamente e coraggiosamente, la propria proposta alle novità scaturenti dalle coscienze in un determinato momento storico. Evidente, infatti, come l’istituzione ecclesiastica non solo sottovaluti il ruolo che potrebbero avere i laici nell’evidenziare una spinta sincera verso l’Assoluto, pur non codificato fideisticamente, ma tenda anche sempre di più ad identificare l’esperienza cristiana con la ritualità e il formalismo.

Si dimentica così il messaggio evangelico di  Yehoshua ben Yosef, Gesù figlio di Giuseppe, il carpentiere di Nazareth, che contrapponeva alla rigidità delle regole sacerdotali la soddisfazione primaria, per il tramite della carità e della misericordia,  di quelle esigenze proprie di un’umanità intenta ad affrontare il quotidiano. Solo in tal modo la vita può assurgere al ruolo di protagonista, nel suo insieme di gioie e dolori, amore e odio, misericordia e indifferenza. Un messaggio che, auspica Sottocornola, oggi dovremmo recuperare in ogni ambito del nostro esistere, in nome di una spiritualità non meramente consolatoria, bensì creativa, dinamica, personale, al pari di una laicità che “in un’epoca di crisi vocazionale e complessivo declino del sacro, potrebbe riservare qualche lieta sorpresa, come segno dei tempi e traccia di quello spirito che continua a soffiare dove vuole…”.

Ecco perché, all’interno di un mondo ormai globalizzato, dove la digitalizzazione ha contributo a creare rilevanti cambiamenti antropologici consentendo di ridurre le distanze nelle comunicazioni, avvicinando le persone, ma offrendo loro al contempo l’illusione di un ruolo da protagonista a coprire quello reale di pedina funzionale ad un sistema tecnicistico e consumistico, per evitare l’amplificazione conseguente del disvalore e del degrado si renderà necessario recuperare un orizzonte teocentrico.

(rawpixel.com, public domain)

Se saremo orfani di quest’ultimo, le più ambiziose aspirazioni alla realizzazione dell’io che la modernità ci ha trasmesso saranno destinate a fallire. Il descritto lavoro di recupero non starà però a significare  la restaurazione di un modello teocratico, dogmatico, integralistico, venendo bensì ad essere reso “da una estetica dell’anima, da una ecologia della mente,  da una fisica dello spirito, da una sinergia cioè di paradigmi  essenziali e all’apparenza divergenti ma chiamati ad incontrarsi, ancora una volta, entro una vocazione trinitaria alla comunione”. Come aveva già intuito, tra ‘800 e ‘900, il filosofo Henri Bergson, oggi l’umanità tutta avrebbe bisogno di un “supplemento di anima”, un potenziamento interiore che potrebbe ovviare all’enorme amplificazione di  una ormai prevalente concezione tecnico-scientifica.

Quest’ultima ha finito per far sì che anche le scienze umane siano ad essa asservite, riducendo l’esistenza in sé come nient’altro che uno strumento per conseguire i propri obiettivi, spesso in nome di un progresso orfano di una evoluzione concretamente umana. Però, pur considerando quanto venga oggi eluso il compito all’educazione  alla responsabilità e all’impegno, al discernimento e alla scelta, occorre specificare che non si potrà rimediare a ciò prescindendo dai bisogni umani, che, in quanto tali, sono volti a costituire la nostra stessa struttura, ma piuttosto lavorare per orientarli e subordinarli a un fine più alto, più specificamente umano, per quanto propenso ad apparire come immateriale o spirituale.  

Sarà allora compito dell’uomo semplice, non corrotto da una educazione irreggimentata nel culto della performance e del successo, provare a giungere ad una dimensione estatica e mistica della vita, percependone l’integrità della sua unità, intensità e sacralità, a prescindere persino dalle rispettive convinzioni e appartenenze religiose. Questo non sta a significare la rinuncia ad ogni specializzazione o dell’onere di una vita dedicata, per esempio nella professione, nella società, nei propri doveri familiari e personali, “mentre realistica e anche desiderabile appare la possibilità di umanizzare tali ambiti – con tutta la tecnica che essi esigono e che non possiamo disattendere – attraverso una consapevolezza più profonda della vita che essi servono e che – anche attraverso l’impegno che richiedono- sono chiamati a celebrare”.

(PxHere, public domain)

D’altronde, traendo insegnamento dalla realtà, l’impegno “eroico” volto alla quotidiana esistenza, teso a raggiungere una meta significativa e percepita come valore, andrà a produrre in noi “un senso di gioia interiore e di espansione, che mai proveremmo affidandoci invece al disordinato impulso del momento, al capriccio della sensibilità o alla mozione del semplice principio di piacere”, quindi un elemento da condividere nella sua universalità, andando a rappresentare “quel dinamismo creativo espresso dall’universo nella sua incessante tensione alla perfezione”.  

In un’epoca dove la comunicazione in sé sembra avere un valore superiore a quanto in essa stessa è contenuto, appare necessario riscoprire la  nostra interiorità più vera, che andrà salvaguardata e sostentata nella sua oggettività rispetto al mondo e alle cose, rappresentando “il nostro patrimonio più alto ed esigente di cultura, sapienza, spiritualità, la nostra energia creativa con il suo orientamento alla speranza e all’amore”.   Non vi sono dubbi riguardo la liceità di avere gusti, nutrire preferenze, appartenere ad un cosmo semantico piuttosto che ad un altro, in quanto l’essere umano non è chiamato ad un algido ed indifferenziato approccio, ma è ad esso inerente piuttosto un compito di vigilanza perché non si finisca a considerarlo come l’unico possibile, tentando, più o meno surrettiziamente, di imporlo agli altri, ai quali occorrerà invece riconoscere un analogo diritto ad elaborare il proprio cosmo semantico.

(Pexels, pubblic domain)

“Perché questo lo spirito suggerisce e- forse- comanda all’anima: vigilare perché esso non soffi invano”, conclude Sottocornola, sostenendo come, per quanto sia apprezzabile un percorso di libertà e responsabilità nella costruzione della propria identità, non risulta certo scevro da difficoltà il proporre una indicazione che porti a percorrere il sentiero idoneo al riguardo, consentendo quindi  tale disposizione trasfigurante. Appare però doveroso rendersi ad essa disponibili “nelle congiunture del quotidiano, così spesso vilipeso dai nostri gusti, dai nostri sogni, dalle nostre proiezioni utopiche, ed invece così immensamente ricco di potenziale bellezza, gratuitamente offerta ad ogni coscienza vigile”.

Sarà sempre l’essere umano, una volta ritrovata in se stesso la  propria vocazione “a perdersi, a trascendersi nell’infinito richiamo dell’assoluto”, a doversi adoperare per riconquistare una purezza valoriale da condividere in nome di un’eguaglianza diversificante e di un rinnovato incontro con l’altro, perché, citando José Saramago, “dentro di noi c’ è qualcosa che non ha nome e quel qualcosa è ciò che noi siamo”.

Una replica a ““La fatica dell’intero”, Sottocornola e l’eguaglianza diversificante del pensiero”

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