*Ma io in guerra non ci volevo andare*

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21/02/2023, ore 05:19

Antonio Zorco, detto Nino, è l’autore di questo libro di memorie incentrate soprattutto sul suo arresto, nell’agosto del 1944, da parte dei tedeschi, sulla sua detenzione ai lavori forzati nel campo di concentramento di Mühldorf dal 9 settembre 1944 al 4 agosto 1945 e sull’immediato dopoguerra, quando, tornato a Fiume, la sua città natale, la trova occupata dalle forze jugoslave e vede i suoi vecchi amici d’infanzia un po’ alla volta andarsene in esilio, chi clandestinamente – come farà una delle sue due sorelle non appena sposata con uno dei suoi migliori amici – chi legalmente, dopo essersi visti espropriare tutti i beni dal potere comunista, chi suicidandosi.

Anni che risultano fondamentali per capire, attraverso le drammatiche vicende personali di un tranquillo uomo qualunque, cosa è successo a Fiume, e nella Venezia Giulia in generale, negli anni della guerra in seguito alla occupazione prima tedesca e poi jugoslava. Quel progressivo sentirsi stranieri in casa propria dove, nel giro di pochi mesi, a prendere il sopravvento in città in maniera del tutto inarrestabile, agli ordini di Belgrado, è altra gente, un’altra lingua e cultura, altri costumi, dando così avvio a un processo di cambiamento radicale dell’humus secolare proprio delle terre istriane e della città di Fiume, tale da far sentire estranei in casa propria i pochi italiani a cui è capitato di restare.

Tutto questo nonostante molti istriani e cittadini di Fiume avessero dato un notevole contributo alla lotta conto il nazifascismo, per liberare le loro terre da quest’ultimo, ma non con l’intenzione di cederle successivamente alla Iugoslavia e di finire così a vivere in un paese che non sentivano come proprio e per di più in condizioni di schiavitù ideologia e minoranza etnica.

Un diario scritto, quindi, con il desiderio di eliminare quei pregiudizi, nati dalla martellante propaganda del Partito Comunista Italiano (PCI), che aveva le sue responsabilità per quanto era successo sul confine orientale a causa del suo malintenzionato oltre che malinteso internazionalismo per il quale stavano più con Tito che con i giuliani, pregiudizi duri a morire, che hanno finito col far passare tutto un popolo, quello istriano e fiumano, come fascista. Perché se qualche fascista c’era, lo era in percentuale, nella stessa misura e quantità presente – e probabilmente anche minore – come a Roma o Bologna e in ogni altra città, paese e campagna del resto d’Italia. A parte i tanti fiumani deportati, che appaiono nel racconto, altri, la stragrande maggioranza di essi, furono partigiani.

La testimonianza di Antonio Zorco si spera possa contribuire a rendere giustizia a quei tanti istriani e fiumani che, dopo esser stati vittime del totalitarismo fascista e comunista, sono stati anche bersaglio di una violenta propaganda di sinistra, almeno fino all’istituzione del giorno ricordo, propaganda che ha sorvolato sul loro sacrifico durante e soprattutto dopo la guerra, quando non solo pagarono con la cessione delle loro terre e l’esilio, ma furono accolti in Italia da sputi e insulti.

L’introduzione al libro di Diego Zandel, nipote dell’autore, e la postfazione dello storico Roberto Spazzali aiutano a contestualizzare le drammatiche vicende personali qui narrate nel quadro famigliare da una parte e storico dall’altra di cui Antonio Zorco è stato, suo malgrado, uno delle migliaia e migliaia di protagonisti.

 

L’autore

Antonio Zorco, detto Nino, era nato a Fiume nel 1925 da genitori istriani di Visignano d’Istria. Renitente a qualsiasi leva, nel 1944 venne arrestato dai tedeschi e costretto, come civile, a entrare nell’organizzazione di lavori forzati Todt in Germania, nel campo di concentramento di Muhldorf, dove restò fino alla fine della guerra e da dove tornò con mezzi di fortuna e malato in Italia, nell’agosto del 1945.

L’occupazione di Fiume da parte delle truppe titine ritardò il suo ritorno a casa. Quando gli fu possibile, scoprì la città svuotata di amici e parenti, di tanti fiumani, e abitata da gente proveniente dalle più diverse parti della ex Jugoslavia, condizione che lo fece sentire – come ha scritto nel suo diario – “uno straniero a casa propria”. Due volte fece richiesta alle autorità jugoslave di andare in Italia: gli vennero negate. Lavorò per tutta la vita come tecnico nella raffineria di Fiume, dove morì nel 2003.


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