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Nicola Manicardi. L’incedere sensoriale della poesia
Quotidiano del sud di giovedģ 2 dicembre 2021
Oggi ho il turno pomeridiano
la casa č come l’ho lasciata ieri
se ci sarą vento le foglie si solleveranno
Sancho resterą solo come i vecchi al parco
ma con l’odore della mia giacca
e io che gli dico “a breve ritorno”.

Solitamente le parole rimandano ad altre parole...

di Salvatore Marrazzo
Oggi ho il turno pomeridiano/la casa è come l’ho lasciata ieri/se ci sarà vento le foglie si solleveranno/Sancho resterà solo come i vecchi al parco/ma con l’odore della mia giacca/e io che gli dico “a breve ritorno”. Solitamente le parole rimandano ad altre parole. Come le scritture ad altre scritture. O i libri ad altri libri. Qui invece non c’è nessun’altra parola, nessun’altra scrittura, nessun altro libro se non quello della vita. Qui c’è un linguaggio semplice, silenzioso, composto come i luoghi di confine. Come i lunghi viali, le strade parallele, le scorciatoie. O i capillari senza alcuna linfa. O i canali dove scorre l’acqua in direzione del nulla. In pratica, dove l’uomo è scomparso. Non perché non ci sia davvero ma perché è altrove! Mi chiedo dove siano tutti/io che lavoro facendo i turni/non incontro nessuno/se non per brevi apparizioni/che neanche un giovane topo/sarebbe capace. Nicola Manicardi, Carne e sangue, oltre edizioni, pagg. 77. Se a proposito di Umiltà degli scarti, l’ultima raccolta del poeta modenese, elaboravo un percorso privo di nostalgia, e discorrevo di una scrittura tagliente, fatta di righe nette, di ambienti avversi, frustanti, di una misura fredda, nient’affatto dilatata del dolore e senza nessuna traccia d’ipocrisia o di verbi consunti, qui, pare, possa essere appropriato un approccio più delicato, più elegiaco, più sensoriale. Manicardi, in breve, sembra cambiare registro. A dispetto del titolo che a mio parere è fuorviante, come anche l’immagine di copertina, una tempesta di neve di Turner, i versi accettano uno sguardo sulla realtà più dolce, più sincero, più autenticamente originario. C’è una fisicità della natura, ma non una vessazione. Gli aironi sono radunati/nel campo di fronte alla porcilaia./C’è semina, il sole è ancora caldo/e l’acqua scorre nei canali./Lo vedrò oggi poi non so./Scollinare il piccolo viadotto/al termine di questo mio Viale è:/fuga e piacere/stare e stanare./Resteranno ancora pochi giorni/poi partiranno chissà per quale meta. Si apre una spazialità metafisica. Una sontuosità. Una meraviglia delle piccole cose. Una solitudine delle cose che è il loro autentico esistere e necessario vivere. Quel vivere che di là dalla domanda sul senso, di una nullificazione del significato, trova il proprio acume proprio in una naturalità assegnata. Destinale. Fugace. Obbediente. Monotona. Eppure potente. Lucio ha sessant’anni e non ha un lavoro fisso/ma sorride a tutti./Il 28 luglio è stato mezza giornata al mare/e racconta di averlo toccato dopo avergli parlato. Cosa di cui il poeta nella veste della differenza o dell’avanzo non è più capace di fare, di compiere, di contravvenire. Come se al corpo di una lingua non fossero più consentiti un riserbo, un pudore, un gesto semplice che è la possibilità di un segno, di un’azione pura. Io ho avuto tempo, scrive il poeta, ma il mio occhio è caduto nell’ego. Da domani vivrò nella pienezza delle distanze brevi. Una consapevolezza che il linguaggio, o meglio la poesia, sia altro dalla vita? Oppure che la poesia sia finalmente questa sterzata di verità: uno sguardo e nient’altro ma con piglio di un’osservazione più sottratta, più vicina, più fondatamente manifesta? Come se non ci fosse, allora, nessun bisogno di rifare, di ricreare, di decifrare. È tutto già lì, nella più nuda esistenza. Nessuna enfasi, scrive Nicola Vacca, l’attento prefatore, che segue i passi del poeta come se essi fossero delle incolmabili apocalissi quotidiane. Tuttavia, essi sono passi calmi.
Tenaci nella loro memoria. Se la memoria è l’indice/qui serve una mano. Nel parco o nel “Viale” alberato che, qualche volta, lui scrive con la maiuscola, Manicardi insieme al suo Sancho osserva e descrive quel poco che lo circonda con un’empatia toccante, leggera, quasi celebrante. I vecchi sono i veri dipendenti del giorno/sembra che marchino le ore di uscita/ognuno seduto al proprio posto/come impiegati del parco. Un dialogo serrato, una prosa ferma e cedevole ma che rivela il mondo. A un certo punto/dovevo per forza di cose/rallentare il passo su questo viale/che termina con l’insegna “Modena”./Perché Modena non finisce. Quel luogo, quei pochi passi sono il “tutto” che è il mondo. La sua sospensione e la sua più intima e irredimibile esistenza. Il gatto ne era un esempio./Il merlo saltella qui come in tutto il resto del Mondo. A sud di Modena, Manicardi sembra descrivere l’universo. Ed è come se la natura riemergesse con la sola grazia dello sguardo.
– Ogni poeta, se si spinge un po’ a fondo, scrive Roland Barthes, finisce per avvicinarsi al naturalista. – Chissà? Magari è l’incedere dimesso che permette all’occhio di vedere con più attenzione, con più nostalgia, con più sensibilità. Ci sono l’insetto stecco, l’ape, una mantide religiosa, la rana, la talpa, il gufo, la lucertola, il ragno, la carpa, il finocchietto selvatico, la zolla d’erba, la begonia rossa, la luna, i pollini nell’aria. C’è la pelle dell’uomo. C’è il suonatore di pianoforte. C’è Nanak, il giovane indiano Sikh. C’è la poesia. Questa irrefrenabile e docile sostanza che lascia che le cose ricompaiano nella loro giusta misura. E si distinguano. Un bel libro quello del poeta modenese, che mobilita atmosfere ghirriane così come gli accordi di un Pavese disilluso e placido. A lei, alla poesia, allora, non si può che chiedere in quale punto sia il suo silenzio? E la risposta non potrebbe che essere un tropo. Oppure no? La poesia, scrive il chiosatore, è una cosa onesta. E va sempre raccontata (e vissuta) con la passione del testimone.

Nicola Manicardi, Carne e sangue, Oltre Edizioni, pagg. 77


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la casa č come l’ho lasciata ieri
se ci sarą vento le foglie si solleveranno
Sancho resterą solo come i vecchi al parco
ma con l’odore della mia giacca
e io che gli dico “a breve ritorno”.

Solitamente le parole rimandano ad altre parole...

di Salvatore Marrazzo
Oggi ho il turno pomeridiano/la casa è come l’ho lasciata ieri/se ci sarà vento le foglie si solleveranno/Sancho resterà solo come i vecchi al parco/ma con l’odore della mia giacca/e io che gli dico “a breve ritorno”. Solitamente le parole rimandano ad altre parole. Come le scritture ad altre scritture. O i libri ad altri libri. Qui invece non c’è nessun’altra parola, nessun’altra scrittura, nessun altro libro se non quello della vita. Qui c’è un linguaggio semplice, silenzioso, composto come i luoghi di confine. Come i lunghi viali, le strade parallele, le scorciatoie. O i capillari senza alcuna linfa. O i canali dove scorre l’acqua in direzione del nulla. In pratica, dove l’uomo è scomparso. Non perché non ci sia davvero ma perché è altrove! Mi chiedo dove siano tutti/io che lavoro facendo i turni/non incontro nessuno/se non per brevi apparizioni/che neanche un giovane topo/sarebbe capace. Nicola Manicardi, Carne e sangue, oltre edizioni, pagg. 77. Se a proposito di Umiltà degli scarti, l’ultima raccolta del poeta modenese, elaboravo un percorso privo di nostalgia, e discorrevo di una scrittura tagliente, fatta di righe nette, di ambienti avversi, frustanti, di una misura fredda, nient’affatto dilatata del dolore e senza nessuna traccia d’ipocrisia o di verbi consunti, qui, pare, possa essere appropriato un approccio più delicato, più elegiaco, più sensoriale. Manicardi, in breve, sembra cambiare registro. A dispetto del titolo che a mio parere è fuorviante, come anche l’immagine di copertina, una tempesta di neve di Turner, i versi accettano uno sguardo sulla realtà più dolce, più sincero, più autenticamente originario. C’è una fisicità della natura, ma non una vessazione. Gli aironi sono radunati/nel campo di fronte alla porcilaia./C’è semina, il sole è ancora caldo/e l’acqua scorre nei canali./Lo vedrò oggi poi non so./Scollinare il piccolo viadotto/al termine di questo mio Viale è:/fuga e piacere/stare e stanare./Resteranno ancora pochi giorni/poi partiranno chissà per quale meta. Si apre una spazialità metafisica. Una sontuosità. Una meraviglia delle piccole cose. Una solitudine delle cose che è il loro autentico esistere e necessario vivere. Quel vivere che di là dalla domanda sul senso, di una nullificazione del significato, trova il proprio acume proprio in una naturalità assegnata. Destinale. Fugace. Obbediente. Monotona. Eppure potente. Lucio ha sessant’anni e non ha un lavoro fisso/ma sorride a tutti./Il 28 luglio è stato mezza giornata al mare/e racconta di averlo toccato dopo avergli parlato. Cosa di cui il poeta nella veste della differenza o dell’avanzo non è più capace di fare, di compiere, di contravvenire. Come se al corpo di una lingua non fossero più consentiti un riserbo, un pudore, un gesto semplice che è la possibilità di un segno, di un’azione pura. Io ho avuto tempo, scrive il poeta, ma il mio occhio è caduto nell’ego. Da domani vivrò nella pienezza delle distanze brevi. Una consapevolezza che il linguaggio, o meglio la poesia, sia altro dalla vita? Oppure che la poesia sia finalmente questa sterzata di verità: uno sguardo e nient’altro ma con piglio di un’osservazione più sottratta, più vicina, più fondatamente manifesta? Come se non ci fosse, allora, nessun bisogno di rifare, di ricreare, di decifrare. È tutto già lì, nella più nuda esistenza. Nessuna enfasi, scrive Nicola Vacca, l’attento prefatore, che segue i passi del poeta come se essi fossero delle incolmabili apocalissi quotidiane. Tuttavia, essi sono passi calmi.
Tenaci nella loro memoria. Se la memoria è l’indice/qui serve una mano. Nel parco o nel “Viale” alberato che, qualche volta, lui scrive con la maiuscola, Manicardi insieme al suo Sancho osserva e descrive quel poco che lo circonda con un’empatia toccante, leggera, quasi celebrante. I vecchi sono i veri dipendenti del giorno/sembra che marchino le ore di uscita/ognuno seduto al proprio posto/come impiegati del parco. Un dialogo serrato, una prosa ferma e cedevole ma che rivela il mondo. A un certo punto/dovevo per forza di cose/rallentare il passo su questo viale/che termina con l’insegna “Modena”./Perché Modena non finisce. Quel luogo, quei pochi passi sono il “tutto” che è il mondo. La sua sospensione e la sua più intima e irredimibile esistenza. Il gatto ne era un esempio./Il merlo saltella qui come in tutto il resto del Mondo. A sud di Modena, Manicardi sembra descrivere l’universo. Ed è come se la natura riemergesse con la sola grazia dello sguardo.
– Ogni poeta, se si spinge un po’ a fondo, scrive Roland Barthes, finisce per avvicinarsi al naturalista. – Chissà? Magari è l’incedere dimesso che permette all’occhio di vedere con più attenzione, con più nostalgia, con più sensibilità. Ci sono l’insetto stecco, l’ape, una mantide religiosa, la rana, la talpa, il gufo, la lucertola, il ragno, la carpa, il finocchietto selvatico, la zolla d’erba, la begonia rossa, la luna, i pollini nell’aria. C’è la pelle dell’uomo. C’è il suonatore di pianoforte. C’è Nanak, il giovane indiano Sikh. C’è la poesia. Questa irrefrenabile e docile sostanza che lascia che le cose ricompaiano nella loro giusta misura. E si distinguano. Un bel libro quello del poeta modenese, che mobilita atmosfere ghirriane così come gli accordi di un Pavese disilluso e placido. A lei, alla poesia, allora, non si può che chiedere in quale punto sia il suo silenzio? E la risposta non potrebbe che essere un tropo. Oppure no? La poesia, scrive il chiosatore, è una cosa onesta. E va sempre raccontata (e vissuta) con la passione del testimone.

Nicola Manicardi, Carne e sangue, Oltre Edizioni, pagg. 77


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