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«... Dei crepuscoli a settembre, tutta la rovina» di Lina Galli
Mangialibri di martedģ 12 aprile 2022
“L’Istria tra guerra e dopoguerra negli appunti di Lina Galli”: considerata la scarsissima popolaritą dell’artista nell’odierno assurdo Belpaese, almeno extra Lisert, serve partire da chi era Carolina, detta “Lina” Galli. Era una poetessa istriana..."

di Gianfranco Franchi
“L’Istria tra guerra e dopoguerra negli appunti di Lina Galli”: considerata la scarsissima popolarità dell’artista nell’odierno assurdo Belpaese, almeno extra Lisert, serve partire da chi era Carolina, detta “Lina” Galli. Era una poetessa istriana, appartenente alla maggioranza istroveneta autoctona e originaria dell’Istria; nata a Parenzo nel 1899, proprio un 10 febbraio, negli ultimi anni dell’amministrazione austriaca, giovane donna negli anni dell’Istria italiana, fervente patriota, si trasferì a Trieste poco più che trentenne e là rimase fino alla fine dei suoi giorni, nel 1993; a fine anni Quaranta scrisse, con la vedova di Schmitz, Lidia Veneziani, la biografia del povero Svevo (Vita di mio marito, Trieste, 1950; poi tradotto in inglese nel 1989); collaborò col «Piccolo», con «Pagine Istriane» e «Difesa Adriatica». Suo padre, Domenico, falegname, era stato infoibato, probabilmente a Rozzo, nel 1943. Suo fratello, Benedetto detto “Beno”, falegname come il padre, era scomparso, sempre in quel periodo, per mano jugoslava. L’ottimo Roberto Spazzali, curatore di questa edizione, ha raccolto e riordinato note autografe dell’artista, datate 1945-1957, “attraverso lo spoglio della stampa, interviste, testimonianze, annotazioni”. Si tratta di materiale donato all’IRCI (Istituto Regionale per la Cultura Istriana, Fiumana e Dalmata) dagli eredi della poetessa, nel 2006; altro materiale si trova presso l’archivio della Biblioteca Civica Attilio Hortis di Trieste. Spazzali, presentando il libro, spiega che i passi scelti sono “un primo tentativo di narrazione dei tragici eventi istriani dell’autunno 1943: una storia che già aveva avuto ricostruzioni e studi ma qui si presenta attraverso testimonianze dirette”. E questi passi vanno colmando un “vuoto testimoniale”, vale a dire che sin qua “mancava del tutto il percepito dall’interno della società istriana e in particolare tra gli italiani”, tolto qualcosa che era stato riferito da Mario Granbassi sul «Piccolo» o raccolto e riferito altrove dalla Pasquinelli. La differenza sostanziale tra la Galli e la Pasquinelli, scrive Spazzali, è che la Pasquinelli traduceva il suo lavoro in un’azione di carattere politico, mentre la Galli “si fermava all’esigenza di dare voce alla testimonianza”, raccogliendo notizie sulle strategie perpetrate a danno della popolazione italiana dalle bande partigiane comuniste filo-jugoslave. Spazzali glossa: “appunti, biglietti, brevi memoriali sono le tessere di un mosaico di sofferenze che ricostruiscono solo in parte il tragico quadro di quegli anni”. La Galli ha avuto peraltro l’opportunità, a differenza della Pasquinelli, di continuare a raccogliere informazioni almeno fino agli anni Cinquanta; in questo senso, comunque “metteva mano a una memoria ancora viva, non filtrata dalla pubblicistica e non condizionata da successive rielaborazioni”. E così leggiamo dei prodromi della rivolta istro-croata e istro-slovena contro l’Italia e contro gli istro- veneti, nel nome quando del comunismo quando, più onestamente e frontalmente, del loro nazionalismo o del loro revanscismo; leggiamo della sottovalutazione originaria della minaccia jugoslava, e della sua progressiva consistenza e della sua tremenda aggressività; dell’esercito italiano sbandato dopo l’armistizio, della povera gente rimasta indifesa; della feroce anti-italianità dei partigiani jugoslavi, ostili addirittura a quegli slavi che non aderivano alla propaganda titina, e delle vigliaccate delle partigiane, a volte più feroci e bieche dei maschi; leggiamo dei saccheggi delle case, delle fattorie e dei negozi, con tanto di nomi e cognomi dei responsabili; dei documenti bruciati, municipio per municipio, per nascondere le denunce dei furti e delle violenze e azzerare la storia; delle deportazioni negli infami campi di Bistrica, di Borovnica, di San Vito, di Cerquenizza, di Karlovac, di Buccari. “Non c’era più un diritto, una difesa, un’autorità a cui appellarsi. Ciascuno si sentiva colpevole in quanto era italiano”, scrive la Galli, e non importava che si trattasse di intellettuali o di operai, contadini o professionisti; l’odio falciava tutti, al di là della classe. Leggiamo delle foibe, “eccidio freddamente ordinato e selvaggiamente eseguito per dominare il più possibile la cosiddetta minoranza italiana, perché il delitto restasse nascosto”, fondato sulla fiducia nell’omertà e nel silenzio, ordinato da tribunali parodistici dopo processi-farsa, a volte senza nemmeno interrogare i condannati; leggiamo dell’eroico maresciallo Arnaldo Harzarich, da Pola, vigile del fuoco che, calandosi nella foiba di Vines, riuscì a recuperare addirittura 250 morti, e diverse altre foibe esplorò, restituendo il diritto a una decorosa sepoltura a tanta povera gente, o almeno a povere ossa; dell’inquietante e angosciante riconoscimento delle salme, a volte seviziate e crudelmente sfigurate. Leggiamo di tanta ingiustizia e piangiamo la perduta terra Giulia, e la sua gente superstite così costretta a una diaspora intercontinentale, amarissima...

Il titolo del libro è un riferimento ai versi di una poesia della Galli: “La vedrò”, datata 1958. Sono versi dedicati a Parenzo. “Quando sarò per morire la vedrò / la mia città, nella pioggia che ravvolge / le case cadenti in velari di pianto. / La mia città nelle fiamme / dei crepuscoli a settembre, tutta la rovina / trasfigurata in bellezza / la mia città, sul plumbeo mare / invernale, avvolta da nebbie leggere / e colma di abbandono”. Sì, deve averla vista davvero la sua città, la nostra amata Lina Galli, quando, quasi centenaria, è tornata alla casa del Padre: è morta da esule, consapevole che la sua Parenzo era stata croatizzata. È morta da esule, sapendo che i suoi cari caduti per l’Istria italiana non avevano avuto giustizia. È morta da esule, sognando il ritorno, come tanti di noi che veniamo da sangue istriano. Plaudiamo nel frattempo a questa pubblicazione per tante ragioni; perché in questo momento, avvilente osservarlo, niente esiste in libreria di Lina Galli, e da tanto tempo è così: perciò chi vuole leggere i suoi versi è costretto ad andare per mercatini, bancarelle o biblioteche. Plaudiamo perché la curatela del professor Spazzali scintilla per competenza, educazione, sensibilità; perché gli apparati sono notevoli e i testi sono lancinanti e lucidi. Plaudiamo perché forse un libro come questo potrà raccontare tanto a tante persone, nel tempo, nelle generazioni. Plaudiamo perché è un’operazione intelligente e benigna, per la memoria e la verità, per la giustizia e per la storia. Personalmente, ho trovato angosciante leggere di nuovo tanti nomi e cognomi dei responsabili delle vessazioni e delle crudeltà che hanno ferito e umiliato la gente istriana e fiumana; è stato spesso un ripasso cupo e altre volte una lezione terribile. Velenosa e straziante, di nuovo. Tanto altro dovrei dire ma non voglio, non adesso; niente altro, non qui.



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“L’Istria tra guerra e dopoguerra negli appunti di Lina Galli”: considerata la scarsissima popolaritą dell’artista nell’odierno assurdo Belpaese, almeno extra Lisert, serve partire da chi era Carolina, detta “Lina” Galli. Era una poetessa istriana..."

di Gianfranco Franchi
“L’Istria tra guerra e dopoguerra negli appunti di Lina Galli”: considerata la scarsissima popolarità dell’artista nell’odierno assurdo Belpaese, almeno extra Lisert, serve partire da chi era Carolina, detta “Lina” Galli. Era una poetessa istriana, appartenente alla maggioranza istroveneta autoctona e originaria dell’Istria; nata a Parenzo nel 1899, proprio un 10 febbraio, negli ultimi anni dell’amministrazione austriaca, giovane donna negli anni dell’Istria italiana, fervente patriota, si trasferì a Trieste poco più che trentenne e là rimase fino alla fine dei suoi giorni, nel 1993; a fine anni Quaranta scrisse, con la vedova di Schmitz, Lidia Veneziani, la biografia del povero Svevo (Vita di mio marito, Trieste, 1950; poi tradotto in inglese nel 1989); collaborò col «Piccolo», con «Pagine Istriane» e «Difesa Adriatica». Suo padre, Domenico, falegname, era stato infoibato, probabilmente a Rozzo, nel 1943. Suo fratello, Benedetto detto “Beno”, falegname come il padre, era scomparso, sempre in quel periodo, per mano jugoslava. L’ottimo Roberto Spazzali, curatore di questa edizione, ha raccolto e riordinato note autografe dell’artista, datate 1945-1957, “attraverso lo spoglio della stampa, interviste, testimonianze, annotazioni”. Si tratta di materiale donato all’IRCI (Istituto Regionale per la Cultura Istriana, Fiumana e Dalmata) dagli eredi della poetessa, nel 2006; altro materiale si trova presso l’archivio della Biblioteca Civica Attilio Hortis di Trieste. Spazzali, presentando il libro, spiega che i passi scelti sono “un primo tentativo di narrazione dei tragici eventi istriani dell’autunno 1943: una storia che già aveva avuto ricostruzioni e studi ma qui si presenta attraverso testimonianze dirette”. E questi passi vanno colmando un “vuoto testimoniale”, vale a dire che sin qua “mancava del tutto il percepito dall’interno della società istriana e in particolare tra gli italiani”, tolto qualcosa che era stato riferito da Mario Granbassi sul «Piccolo» o raccolto e riferito altrove dalla Pasquinelli. La differenza sostanziale tra la Galli e la Pasquinelli, scrive Spazzali, è che la Pasquinelli traduceva il suo lavoro in un’azione di carattere politico, mentre la Galli “si fermava all’esigenza di dare voce alla testimonianza”, raccogliendo notizie sulle strategie perpetrate a danno della popolazione italiana dalle bande partigiane comuniste filo-jugoslave. Spazzali glossa: “appunti, biglietti, brevi memoriali sono le tessere di un mosaico di sofferenze che ricostruiscono solo in parte il tragico quadro di quegli anni”. La Galli ha avuto peraltro l’opportunità, a differenza della Pasquinelli, di continuare a raccogliere informazioni almeno fino agli anni Cinquanta; in questo senso, comunque “metteva mano a una memoria ancora viva, non filtrata dalla pubblicistica e non condizionata da successive rielaborazioni”. E così leggiamo dei prodromi della rivolta istro-croata e istro-slovena contro l’Italia e contro gli istro- veneti, nel nome quando del comunismo quando, più onestamente e frontalmente, del loro nazionalismo o del loro revanscismo; leggiamo della sottovalutazione originaria della minaccia jugoslava, e della sua progressiva consistenza e della sua tremenda aggressività; dell’esercito italiano sbandato dopo l’armistizio, della povera gente rimasta indifesa; della feroce anti-italianità dei partigiani jugoslavi, ostili addirittura a quegli slavi che non aderivano alla propaganda titina, e delle vigliaccate delle partigiane, a volte più feroci e bieche dei maschi; leggiamo dei saccheggi delle case, delle fattorie e dei negozi, con tanto di nomi e cognomi dei responsabili; dei documenti bruciati, municipio per municipio, per nascondere le denunce dei furti e delle violenze e azzerare la storia; delle deportazioni negli infami campi di Bistrica, di Borovnica, di San Vito, di Cerquenizza, di Karlovac, di Buccari. “Non c’era più un diritto, una difesa, un’autorità a cui appellarsi. Ciascuno si sentiva colpevole in quanto era italiano”, scrive la Galli, e non importava che si trattasse di intellettuali o di operai, contadini o professionisti; l’odio falciava tutti, al di là della classe. Leggiamo delle foibe, “eccidio freddamente ordinato e selvaggiamente eseguito per dominare il più possibile la cosiddetta minoranza italiana, perché il delitto restasse nascosto”, fondato sulla fiducia nell’omertà e nel silenzio, ordinato da tribunali parodistici dopo processi-farsa, a volte senza nemmeno interrogare i condannati; leggiamo dell’eroico maresciallo Arnaldo Harzarich, da Pola, vigile del fuoco che, calandosi nella foiba di Vines, riuscì a recuperare addirittura 250 morti, e diverse altre foibe esplorò, restituendo il diritto a una decorosa sepoltura a tanta povera gente, o almeno a povere ossa; dell’inquietante e angosciante riconoscimento delle salme, a volte seviziate e crudelmente sfigurate. Leggiamo di tanta ingiustizia e piangiamo la perduta terra Giulia, e la sua gente superstite così costretta a una diaspora intercontinentale, amarissima...

Il titolo del libro è un riferimento ai versi di una poesia della Galli: “La vedrò”, datata 1958. Sono versi dedicati a Parenzo. “Quando sarò per morire la vedrò / la mia città, nella pioggia che ravvolge / le case cadenti in velari di pianto. / La mia città nelle fiamme / dei crepuscoli a settembre, tutta la rovina / trasfigurata in bellezza / la mia città, sul plumbeo mare / invernale, avvolta da nebbie leggere / e colma di abbandono”. Sì, deve averla vista davvero la sua città, la nostra amata Lina Galli, quando, quasi centenaria, è tornata alla casa del Padre: è morta da esule, consapevole che la sua Parenzo era stata croatizzata. È morta da esule, sapendo che i suoi cari caduti per l’Istria italiana non avevano avuto giustizia. È morta da esule, sognando il ritorno, come tanti di noi che veniamo da sangue istriano. Plaudiamo nel frattempo a questa pubblicazione per tante ragioni; perché in questo momento, avvilente osservarlo, niente esiste in libreria di Lina Galli, e da tanto tempo è così: perciò chi vuole leggere i suoi versi è costretto ad andare per mercatini, bancarelle o biblioteche. Plaudiamo perché la curatela del professor Spazzali scintilla per competenza, educazione, sensibilità; perché gli apparati sono notevoli e i testi sono lancinanti e lucidi. Plaudiamo perché forse un libro come questo potrà raccontare tanto a tante persone, nel tempo, nelle generazioni. Plaudiamo perché è un’operazione intelligente e benigna, per la memoria e la verità, per la giustizia e per la storia. Personalmente, ho trovato angosciante leggere di nuovo tanti nomi e cognomi dei responsabili delle vessazioni e delle crudeltà che hanno ferito e umiliato la gente istriana e fiumana; è stato spesso un ripasso cupo e altre volte una lezione terribile. Velenosa e straziante, di nuovo. Tanto altro dovrei dire ma non voglio, non adesso; niente altro, non qui.



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