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L’uomo che inventò il varietà
Il segno di martedì 5 luglio 2022
Vito Molinari, 92 anni, ha diretto programmi leggendari (tra cui “Canzonissima”) dalla Rai di Milano e collaborato con i più grandi: da Campanile a Chiari, da Vitti a Tognazzi

di Marco Casa
«Vito Molinari, dove si trovava la mattina del 3 gennaio 1954?». È giocando a fare l’ispettore di polizia che rivolgiamo la prima domanda a quest'uomo vestito elegantemente e seduto nel suo salotto di casa, con i gemelli della camicia bianca bene in vista. Il principale “indiziato” per la grande rivoluzione epocale e culturale italiana degli anni Cinquanta e Sessanta ride sornione e con una memoria straordinaria rievoca quella giornata storica e “confessa”: «Alle 11 del mattino ero in corso Sempione a Milano e dirigevo la trasmissione inaugurale dei programmi televisivi della Rai». Si trattava di alcune ore di diretta in cui venivano benedetti gli studi dall’arcivescovo Ildefonso Schuster, venivano mostrate ai primi 24 mila abbonati le apparecchiature e veniva spiegato il mezzo di comunicazione.
Già, perché nessuno sapeva cosa fosse la televisione, né gli spettatori e neanche i pionieri che ci lavorarono per primi in Italia. Racconta Molinari: «Con il gruppo di giovani scelti nel 1953 da Sergio Pugliese, primo direttore dei programmi, abbiamo cominciato a fare delle cose e a discuterne tra di noi, inventandoci la grammatica di un linguaggio di cui non esisteva sintassi, non esisteva nulla. Gli unici che ci capivano erano gli ingegneri perché si avvalevano delle esperienze tecnologiche inglesi e americane». Il teatro, da cui proveniva l’allora ventiquattrenne regista ligure, aveva duemila anni di storia, la radio e il cinema erano media già maturi e diffusi, ma la televisione degli albori era una terra vergine da conquistare e presto avrebbe a sua volta conquistato gli italiani. Diceva Pugliese che quella scatola doveva essere “una finestra aperta sul mondo”. «E lo era veramente - sottolinea Molinari -. Pensiamo a un Paese sulle montagne dell’Abruzzo, da cui la gente non era mai uscita se non per emigrare in America, improvvisamente nel bar della piazza, in questo apparecchietto con figure in bianco e nero che andavano e venivano, apparivano le immagini di Londra, New York, Tokyo: era sconvolgente». Un’Italia degli anni Cinquanta con una popolazione per un terzo analfabeta e per altri due terzi ancorata ai dialetti, gente che non era andata a scuola, ma che apprendeva, si divertiva, si emozionava, si informava con programmi scritti da Umberto Eco, Achille Campanile, Raffaele Crovi, Piero Angela. Gli italiani imparavano anche a ridere più “di testa” che “di pancia”, grazie al varietà televisivo, genere inventato proprio da Vito Molinari. Nascono “Ti conosco mascherina”, “Guarda chi si vede”, “Un due tre” e altre trasmissioni dirette da Molinari, scritte da Metz, Mosca, Campanile, Marcello Marchesi, Vincenzo Rovi (fratello di Campanile), Carletto Manzoni, Terzoli, Vaime e condotti da grandi artisti come Vianello, Tognazzi, Carlo Campanini, Walter Chiari, Lauretta Masiero, Monica Vitti e Sandra Mondaini.
A tanta intelligenza prodotta per il piccolo schermo non corrispondeva però spesso quella della censura «basata sui centimetri di pelle che facevano vedere le ballerine - ricorda Molinari - o su frasi equivoche come “membri del parlamento” e “la squadra del Benfica”. Non si poteva neanche dire la parola sudore». «Quando ho fatto “Canzonissima” con Dario Fo - rievoca il regista - ci sono state delle interpellanze parlamentari: un onorevole della Dc disse che la signora Franca Rame non doveva esagerare e quando cantava doveva fare vedere solo una gamba alla volta!». Molinari snocciola ricordi, aneddoti, date, contesti storici in cui si è trovato a lavorare nella sua lunga carriera, dentro e fuori dalla Rai: 2000 trasmissioni, 500 caroselli, centinaia di allestimenti teatrali. All’età di 92 anni il signor Vito (non chiamatelo maestro!) ha ancora una grande energia, vive ancorato al presente in una casa non molto distante dalla sede Rai di corso Sempione, circondato da libri, locandine dei suoi spettacoli, quadri di maestri scenografi come Luzzati e Guglielminetti, ricordi di viaggi fatti da solo e con l’amata moglie Hilda Toselli, attrice, con cui ha vissuto dal 1954 al 1994, anno della sua morte. Proprio per lei, sul finire degli anni Ottanta, ha abbandonato la tv per seguirla a Genova dove era in cura per un tumore. Tornato a Milano ha continuato a lavorare come regista teatrale e negli ultimi anni si è dedicato alla scrittura pubblicando 11 libri tra saggi, romanzi e racconti.
Tra questi c’è La mia Rai, edito da Gammarò, che meriterebbe di essere letto nelle università, là dove si formano i nuovi autori televisivi, ammesso che ne esistano ancora, perché afferma Molinari: «Oggi le trasmissioni sono tanto brutte, la tv è stata uccisa da format autoreferenziali in cui la gente comune si fa vedere e si racconta, come nel “Grande fratello”. Ormai non c’è più bisogno di autori che scrivano, attori che recitino, registi che facciano la regia».
A questo punto decido di rilasciare il “sospettato” Molinari perché con l’arma dell’umorismo non ha mai attentato all’intelligenza degli spettatori.


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Vito Molinari, 92 anni, ha diretto programmi leggendari (tra cui “Canzonissima”) dalla Rai di Milano e collaborato con i più grandi: da Campanile a Chiari, da Vitti a Tognazzi

di Marco Casa
«Vito Molinari, dove si trovava la mattina del 3 gennaio 1954?». È giocando a fare l’ispettore di polizia che rivolgiamo la prima domanda a quest'uomo vestito elegantemente e seduto nel suo salotto di casa, con i gemelli della camicia bianca bene in vista. Il principale “indiziato” per la grande rivoluzione epocale e culturale italiana degli anni Cinquanta e Sessanta ride sornione e con una memoria straordinaria rievoca quella giornata storica e “confessa”: «Alle 11 del mattino ero in corso Sempione a Milano e dirigevo la trasmissione inaugurale dei programmi televisivi della Rai». Si trattava di alcune ore di diretta in cui venivano benedetti gli studi dall’arcivescovo Ildefonso Schuster, venivano mostrate ai primi 24 mila abbonati le apparecchiature e veniva spiegato il mezzo di comunicazione.
Già, perché nessuno sapeva cosa fosse la televisione, né gli spettatori e neanche i pionieri che ci lavorarono per primi in Italia. Racconta Molinari: «Con il gruppo di giovani scelti nel 1953 da Sergio Pugliese, primo direttore dei programmi, abbiamo cominciato a fare delle cose e a discuterne tra di noi, inventandoci la grammatica di un linguaggio di cui non esisteva sintassi, non esisteva nulla. Gli unici che ci capivano erano gli ingegneri perché si avvalevano delle esperienze tecnologiche inglesi e americane». Il teatro, da cui proveniva l’allora ventiquattrenne regista ligure, aveva duemila anni di storia, la radio e il cinema erano media già maturi e diffusi, ma la televisione degli albori era una terra vergine da conquistare e presto avrebbe a sua volta conquistato gli italiani. Diceva Pugliese che quella scatola doveva essere “una finestra aperta sul mondo”. «E lo era veramente - sottolinea Molinari -. Pensiamo a un Paese sulle montagne dell’Abruzzo, da cui la gente non era mai uscita se non per emigrare in America, improvvisamente nel bar della piazza, in questo apparecchietto con figure in bianco e nero che andavano e venivano, apparivano le immagini di Londra, New York, Tokyo: era sconvolgente». Un’Italia degli anni Cinquanta con una popolazione per un terzo analfabeta e per altri due terzi ancorata ai dialetti, gente che non era andata a scuola, ma che apprendeva, si divertiva, si emozionava, si informava con programmi scritti da Umberto Eco, Achille Campanile, Raffaele Crovi, Piero Angela. Gli italiani imparavano anche a ridere più “di testa” che “di pancia”, grazie al varietà televisivo, genere inventato proprio da Vito Molinari. Nascono “Ti conosco mascherina”, “Guarda chi si vede”, “Un due tre” e altre trasmissioni dirette da Molinari, scritte da Metz, Mosca, Campanile, Marcello Marchesi, Vincenzo Rovi (fratello di Campanile), Carletto Manzoni, Terzoli, Vaime e condotti da grandi artisti come Vianello, Tognazzi, Carlo Campanini, Walter Chiari, Lauretta Masiero, Monica Vitti e Sandra Mondaini.
A tanta intelligenza prodotta per il piccolo schermo non corrispondeva però spesso quella della censura «basata sui centimetri di pelle che facevano vedere le ballerine - ricorda Molinari - o su frasi equivoche come “membri del parlamento” e “la squadra del Benfica”. Non si poteva neanche dire la parola sudore». «Quando ho fatto “Canzonissima” con Dario Fo - rievoca il regista - ci sono state delle interpellanze parlamentari: un onorevole della Dc disse che la signora Franca Rame non doveva esagerare e quando cantava doveva fare vedere solo una gamba alla volta!». Molinari snocciola ricordi, aneddoti, date, contesti storici in cui si è trovato a lavorare nella sua lunga carriera, dentro e fuori dalla Rai: 2000 trasmissioni, 500 caroselli, centinaia di allestimenti teatrali. All’età di 92 anni il signor Vito (non chiamatelo maestro!) ha ancora una grande energia, vive ancorato al presente in una casa non molto distante dalla sede Rai di corso Sempione, circondato da libri, locandine dei suoi spettacoli, quadri di maestri scenografi come Luzzati e Guglielminetti, ricordi di viaggi fatti da solo e con l’amata moglie Hilda Toselli, attrice, con cui ha vissuto dal 1954 al 1994, anno della sua morte. Proprio per lei, sul finire degli anni Ottanta, ha abbandonato la tv per seguirla a Genova dove era in cura per un tumore. Tornato a Milano ha continuato a lavorare come regista teatrale e negli ultimi anni si è dedicato alla scrittura pubblicando 11 libri tra saggi, romanzi e racconti.
Tra questi c’è La mia Rai, edito da Gammarò, che meriterebbe di essere letto nelle università, là dove si formano i nuovi autori televisivi, ammesso che ne esistano ancora, perché afferma Molinari: «Oggi le trasmissioni sono tanto brutte, la tv è stata uccisa da format autoreferenziali in cui la gente comune si fa vedere e si racconta, come nel “Grande fratello”. Ormai non c’è più bisogno di autori che scrivano, attori che recitino, registi che facciano la regia».
A questo punto decido di rilasciare il “sospettato” Molinari perché con l’arma dell’umorismo non ha mai attentato all’intelligenza degli spettatori.


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