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Identita' preistoriche
// Giusy Capone Blog :-) di giovedģ 31 agosto 2023
Potere, disuguaglianza e rito nelle societa' neolitiche del Vicino Oriente
L’umanita' e' riuscita a prevenire per millenni sia la comparsa di modelli sociali caratterizzati da gerarchie rigide e permanenti sia il consolidamento di formule politiche

di Giusy Capone

Potere, disuguaglianza e rito nelle società neolitiche del Vicino Oriente

L’umanità è riuscita a prevenire per millenni sia la comparsa di modelli sociali caratterizzati da gerarchie rigide e permanenti sia il consolidamento di formule politiche assimilabili a un’organizzazione di tipo statale.
A cosa è dovuta questa circostanza?

Non possiamo dirlo con certezza. A produrre questo esito furono probabilmente diversi ordini di fattori. L’ipotesi (speculativa) che avanzo nel libro è che nel caso del Neolitico del Vicino Oriente molto sarebbe dipeso dal fatto che i nostri antenati neolitici strutturavano culturalmente le proprie identità personali e collettive in modi differenti da quelli familiari a noi occidentali moderni. Essi, in altre parole, si vedevano in modo molto diverso da come ci vediamo noi oggi, sia nella relazione con i propri simili che in quella con il mondo circostante (considerato tanto nei suoi aspetti “naturali” quanto in quelli “artificiali”).

Economie di produzione, urbanismo, istituzioni impersonali e centralizzate hanno potuto contribuire alla transizione da un egalitarismo originario a società strutturate in senso gerarchico?

Questa tesi ha goduto di una certa popolarità tra gli antropologi di impostazione evoluzionista ed è anche abbastanza radicata nel senso comune. Si tratta però di una concezione smentita da decenni di studi e ricerche sulla preistoria.
Per prima cosa, è discutibile l’idea secondo cui esisterebbero società distintamente “egalitarie” e società distintamente “gerarchiche”. In ogni società convivono tendenze che spingono nell’una e nell’altra direzione e la loro combinazione può generare equilibri differenti.
È possibile, questo sì, che nascano società stratificate, ossia società in cui le gerarchie diventano così cristallizzate e permanenti da dare origine a una divisione stabile in classi sociali definite dalla divisione del lavoro e dalla distribuzione del potere.
Il fatto che per millenni, nel corso della preistoria, modelli di questo tipo non abbiano preso piede in modo deciso e irreversibile è stato spesso ricondotto al fatto che l’umanità preistorica non praticava ancora l’agricoltura (che, come sappiamo, nelle giuste condizioni consente di produrre e accumulare consistenti surplus di risorse) e non viveva in insediamenti “complessi” di grandi dimensioni come le città-stato che fecero la loro comparsa in Mesopotamia in età protostorica. Sarebbe stata insomma la necessità di gestire in modo efficace innovazioni tecnologiche ed economiche e tendenze demografiche espansive a trasformare la stratificazione da semplice opzione a destino ineluttabile.
Ci sono però due problemi.
Il primo è che, come ci insegnano da più di un secolo antropologi ed etnografi, anche le società di cacciatori-raccoglitori possono strutturarsi in forme fortemente diseguali. Il secondo è che nella fase neolitica della preistoria del Vicino Oriente i popoli della regione praticavano eccome l’agricoltura e conducevano un’elaborata vita di villaggio; eppure, nonostante ciò, le testimonianze archeologiche non hanno restituito prove evidenti di stratificazione sociale.
I motivi che spingono una società a strutturarsi in forma stratificata o meno, quindi, non possono essere ridotti ai paradigmi economici o alla demografia, ma chiamano in causa altri fattori, di natura più generalmente culturale.

I modelli economici e politici che contraddistinguono l’organizzazione sociale preistorica sono improntati alla flessibilità.
Ebbene, è essa la reale chiave interpretativa?

Che la vita collettiva di alcune società preistoriche, come quelle riconducibili alla Cultura Gravettiana o i gruppi proto-neolitici del Levante Settentrionale, alternassero forme differenti di organizzazione a seconda ad esempio del contesto stagionale è un’ipotesi molto affascinante, che è stata riproposta di recente da David Graeber e David Wengrow nel loro bellissimo libro “L’alba di tutto” (edito in Italia da Rizzoli nel 2022). I due autori, per supportare questa ipotesi, si basano tra l’altro su alcuni studi etnografici relativi a società di cacciatori-raccoglitori studiate dagli antropologi nel Novecento.
L’idea che suggerisco nel libro è che anche le prime società agricole della storia umana, sorte nel Vicino Oriente circa 10.500 anni fa, avrebbero mantenuto degli assetti flessibili, e questo proprio perché gli abitanti neolitici della regione definivano la propria identità personali e collettive in dei modi tali per cui essi non si vedevano ancora in forma strutturata come “agricoltori” o “pastori” e nemmeno come membri di comunità organiche associate ai singoli villaggi. La loro vita economica e sociale era, da questo punto di vista, molto più varia e cosmopolita.

Lei si è confrontato con le prospettive sviluppate negli ultimi decenni da archeologi, antropologi, filosofi e studiosi dei fenomeni religiosi.
C’è un tratto che accomuna i loro punti di vista?

Sicuramente la volontà di offrire un’immagine differente della preistoria e, in generale, di tutto ciò che si presenta ai nostri occhi come antropologicamente “altro”. Differente e, soprattutto, meno ingenerosa rispetto a quelle che prevalgono a livello di senso comune, dove tanto l’umanità preistorica quanto le popolazioni indigene vengono spesso ritratte come realtà “primitive”, meno evolute e “civilizzate” rispetto alla nostra. Al di là delle differenze spesso enormi che ci separano da questi mondi, infatti, la morale è che dal confronto con essi possiamo imparare molto – molto anche su di “noi”.

La preistoria intrattiene legami con forze ed entità ascritte alla sfera della trascendenza. Dovremmo ripensare il nostro modo di intendere le nozioni di “persona”, “società” e “potere”?

È importante precisare cosa intendo quando parlo di “trascendenza”. “Trascendente”, per come uso il concetto nel libro (in particolare nei capitoli conclusivi), è tutto ciò che viene pensato come libero dai vincoli spaziali e temporali che confinano l’esistenza umana al noto ciclo che vede susseguirsi nascita, crescita, maturazione, riproduzione, invecchiamento e morte.
La nostra specie sembra aver sviluppato molto presto la capacità di immaginare qualcosa in grado di trascendere la finitezza umana, nella forma di permanenze (spiriti, sostanze vitali ecc.) e di forze ed entità metapersonali. La necessità di fare i conti con il potere attribuito a queste forze ed entità in virtù della loro capacità di esistere oltre i limiti imposti dalla ciclicità biologica secondo me ha giocato un ruolo centrale nel plasmare la vita economica, sociale e politica, ma ha anche assunto forme differenti nel corso della storia, che hanno dato vita a modelli economici, sociali e politici differenti.
Insomma: a prescindere dal fatto che crediamo o meno nella realtà del trascendente (io personalmente sono un agnostico tendente all’ateismo) non possiamo trascurare o sottovalutare il peso dell’idea di trascendenza nella storia della nostra specie, che gioca un ruolo importantissimo anche nelle nostre società secolarizzate.
Penso che i nostri antenati neolitici abbiano codificato a livello culturale il loro rapporto con questa “trascendenza” in un modo molto diverso da quello a noi familiare, e che tutto questo abbia plasmato la loro concezione di sé, sia come singoli che come collettività, in forme radicalmente diverse da quelle a cui siamo abituati. Per comprendere la preistoria dobbiamo quindi sviluppare una migliore comprensione (in chiave umanista) delle funzioni e del significato del pensiero magico, delle pratiche rituali e della religione; comprensione che porta a ridefinire categorie che spesso diamo per scontate come quelle di “persona”, “società” e “potere”, e che secondo me può offrire alcuni spunti interessanti per affrontare in modo diverso anche i problemi del presente.



Stefano Radaelli, laureato in Filosofia e specializzato in Semiotica. “Identità preistoriche” è il frutto di tre anni di ricerca indipendente, condotta con l’obiettivo di rendere note a un pubblico più ampio alcune delle teorie più interessanti sviluppate negli ultimi decenni da antropologi e archeologi su temi come le origini della disuguaglianza e il rapporto tra rito, identità e organizzazione collettiva.

 



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L’umanita' e' riuscita a prevenire per millenni sia la comparsa di modelli sociali caratterizzati da gerarchie rigide e permanenti sia il consolidamento di formule politiche

di Giusy Capone

Potere, disuguaglianza e rito nelle società neolitiche del Vicino Oriente

L’umanità è riuscita a prevenire per millenni sia la comparsa di modelli sociali caratterizzati da gerarchie rigide e permanenti sia il consolidamento di formule politiche assimilabili a un’organizzazione di tipo statale.
A cosa è dovuta questa circostanza?

Non possiamo dirlo con certezza. A produrre questo esito furono probabilmente diversi ordini di fattori. L’ipotesi (speculativa) che avanzo nel libro è che nel caso del Neolitico del Vicino Oriente molto sarebbe dipeso dal fatto che i nostri antenati neolitici strutturavano culturalmente le proprie identità personali e collettive in modi differenti da quelli familiari a noi occidentali moderni. Essi, in altre parole, si vedevano in modo molto diverso da come ci vediamo noi oggi, sia nella relazione con i propri simili che in quella con il mondo circostante (considerato tanto nei suoi aspetti “naturali” quanto in quelli “artificiali”).

Economie di produzione, urbanismo, istituzioni impersonali e centralizzate hanno potuto contribuire alla transizione da un egalitarismo originario a società strutturate in senso gerarchico?

Questa tesi ha goduto di una certa popolarità tra gli antropologi di impostazione evoluzionista ed è anche abbastanza radicata nel senso comune. Si tratta però di una concezione smentita da decenni di studi e ricerche sulla preistoria.
Per prima cosa, è discutibile l’idea secondo cui esisterebbero società distintamente “egalitarie” e società distintamente “gerarchiche”. In ogni società convivono tendenze che spingono nell’una e nell’altra direzione e la loro combinazione può generare equilibri differenti.
È possibile, questo sì, che nascano società stratificate, ossia società in cui le gerarchie diventano così cristallizzate e permanenti da dare origine a una divisione stabile in classi sociali definite dalla divisione del lavoro e dalla distribuzione del potere.
Il fatto che per millenni, nel corso della preistoria, modelli di questo tipo non abbiano preso piede in modo deciso e irreversibile è stato spesso ricondotto al fatto che l’umanità preistorica non praticava ancora l’agricoltura (che, come sappiamo, nelle giuste condizioni consente di produrre e accumulare consistenti surplus di risorse) e non viveva in insediamenti “complessi” di grandi dimensioni come le città-stato che fecero la loro comparsa in Mesopotamia in età protostorica. Sarebbe stata insomma la necessità di gestire in modo efficace innovazioni tecnologiche ed economiche e tendenze demografiche espansive a trasformare la stratificazione da semplice opzione a destino ineluttabile.
Ci sono però due problemi.
Il primo è che, come ci insegnano da più di un secolo antropologi ed etnografi, anche le società di cacciatori-raccoglitori possono strutturarsi in forme fortemente diseguali. Il secondo è che nella fase neolitica della preistoria del Vicino Oriente i popoli della regione praticavano eccome l’agricoltura e conducevano un’elaborata vita di villaggio; eppure, nonostante ciò, le testimonianze archeologiche non hanno restituito prove evidenti di stratificazione sociale.
I motivi che spingono una società a strutturarsi in forma stratificata o meno, quindi, non possono essere ridotti ai paradigmi economici o alla demografia, ma chiamano in causa altri fattori, di natura più generalmente culturale.

I modelli economici e politici che contraddistinguono l’organizzazione sociale preistorica sono improntati alla flessibilità.
Ebbene, è essa la reale chiave interpretativa?

Che la vita collettiva di alcune società preistoriche, come quelle riconducibili alla Cultura Gravettiana o i gruppi proto-neolitici del Levante Settentrionale, alternassero forme differenti di organizzazione a seconda ad esempio del contesto stagionale è un’ipotesi molto affascinante, che è stata riproposta di recente da David Graeber e David Wengrow nel loro bellissimo libro “L’alba di tutto” (edito in Italia da Rizzoli nel 2022). I due autori, per supportare questa ipotesi, si basano tra l’altro su alcuni studi etnografici relativi a società di cacciatori-raccoglitori studiate dagli antropologi nel Novecento.
L’idea che suggerisco nel libro è che anche le prime società agricole della storia umana, sorte nel Vicino Oriente circa 10.500 anni fa, avrebbero mantenuto degli assetti flessibili, e questo proprio perché gli abitanti neolitici della regione definivano la propria identità personali e collettive in dei modi tali per cui essi non si vedevano ancora in forma strutturata come “agricoltori” o “pastori” e nemmeno come membri di comunità organiche associate ai singoli villaggi. La loro vita economica e sociale era, da questo punto di vista, molto più varia e cosmopolita.

Lei si è confrontato con le prospettive sviluppate negli ultimi decenni da archeologi, antropologi, filosofi e studiosi dei fenomeni religiosi.
C’è un tratto che accomuna i loro punti di vista?

Sicuramente la volontà di offrire un’immagine differente della preistoria e, in generale, di tutto ciò che si presenta ai nostri occhi come antropologicamente “altro”. Differente e, soprattutto, meno ingenerosa rispetto a quelle che prevalgono a livello di senso comune, dove tanto l’umanità preistorica quanto le popolazioni indigene vengono spesso ritratte come realtà “primitive”, meno evolute e “civilizzate” rispetto alla nostra. Al di là delle differenze spesso enormi che ci separano da questi mondi, infatti, la morale è che dal confronto con essi possiamo imparare molto – molto anche su di “noi”.

La preistoria intrattiene legami con forze ed entità ascritte alla sfera della trascendenza. Dovremmo ripensare il nostro modo di intendere le nozioni di “persona”, “società” e “potere”?

È importante precisare cosa intendo quando parlo di “trascendenza”. “Trascendente”, per come uso il concetto nel libro (in particolare nei capitoli conclusivi), è tutto ciò che viene pensato come libero dai vincoli spaziali e temporali che confinano l’esistenza umana al noto ciclo che vede susseguirsi nascita, crescita, maturazione, riproduzione, invecchiamento e morte.
La nostra specie sembra aver sviluppato molto presto la capacità di immaginare qualcosa in grado di trascendere la finitezza umana, nella forma di permanenze (spiriti, sostanze vitali ecc.) e di forze ed entità metapersonali. La necessità di fare i conti con il potere attribuito a queste forze ed entità in virtù della loro capacità di esistere oltre i limiti imposti dalla ciclicità biologica secondo me ha giocato un ruolo centrale nel plasmare la vita economica, sociale e politica, ma ha anche assunto forme differenti nel corso della storia, che hanno dato vita a modelli economici, sociali e politici differenti.
Insomma: a prescindere dal fatto che crediamo o meno nella realtà del trascendente (io personalmente sono un agnostico tendente all’ateismo) non possiamo trascurare o sottovalutare il peso dell’idea di trascendenza nella storia della nostra specie, che gioca un ruolo importantissimo anche nelle nostre società secolarizzate.
Penso che i nostri antenati neolitici abbiano codificato a livello culturale il loro rapporto con questa “trascendenza” in un modo molto diverso da quello a noi familiare, e che tutto questo abbia plasmato la loro concezione di sé, sia come singoli che come collettività, in forme radicalmente diverse da quelle a cui siamo abituati. Per comprendere la preistoria dobbiamo quindi sviluppare una migliore comprensione (in chiave umanista) delle funzioni e del significato del pensiero magico, delle pratiche rituali e della religione; comprensione che porta a ridefinire categorie che spesso diamo per scontate come quelle di “persona”, “società” e “potere”, e che secondo me può offrire alcuni spunti interessanti per affrontare in modo diverso anche i problemi del presente.



Stefano Radaelli, laureato in Filosofia e specializzato in Semiotica. “Identità preistoriche” è il frutto di tre anni di ricerca indipendente, condotta con l’obiettivo di rendere note a un pubblico più ampio alcune delle teorie più interessanti sviluppate negli ultimi decenni da antropologi e archeologi su temi come le origini della disuguaglianza e il rapporto tra rito, identità e organizzazione collettiva.

 



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